Gli argomenti sopra richiamati costituiscono il fulcro della mia decisione di non occuparmi più della gestione del conflitto familiare secondo le regole dell’ordinamento giudiziario nel processo civile, ma di occuparmene in un contesto stragiudiziale da me avvertito come molto più duttile rispetto alle svariate esigenze dell’utenza: cosa che ho iniziato a fare, adottando le tecniche della mediazione strutturata globale, in contemporanea con l’avvio del corso biennale di formazione al counseling presso la Scuola Milanese di Terapia della Famiglia.
All’esito dell’esperienza fatta e in base agli elementi da me acquisiti, non mi pare azzardato affermare che ritengo di averne tratto più di un argomento a sostegno della scelta da me intrapresa e per ampliare il campo del mio possibile ambito di intervento, che prima intendevo pressochè esclusivamente finalizzato alla separazione e al divorzio.
Nel corso delle lezioni e dalle letture suggeriteci ho infatti ricevuto conferma di ciò che aveva già costituito oggetto – sia pur attraverso un iter logico diverso, basato sull’osservazione della casistica fornitami dalla esperienza professionale di avvocato – di un mio precedente elaborato
( “Cosa ne è della famiglia?”, edito nel 1977 dalla Grafo Edizioni per la Commissione Pari Opportunità della Provincia di Brescia): e cioè che non vi sono regole o modelli assoluti di vita familiare che trovino in sè la propria legittimazione, ma che tutto si attualizza e giustifica, purchè condiviso e portatore di senso secondo i criteri di riferimento adottati, in un certo contesto sociale e in una determinata relazione.
Ho appreso inoltre che, quando un rapporto personale entra in crisi, ciò va letto in chiave non necessariamente negativa, in quanto il conflitto determinato dalla divergenza di vedute e di esigenze può risolversi nell’individuazione di nuove risorse da cui il gruppo familiare può trarre ulteriore linfa vitale. Ciò comporta però la necessità di ridefinire le proprie regole in vista del futuro che andrà disegnato, non sempre e necessariamente in vista della separazione, secondo percorsi che spetta al gruppo familiare individuare. Là dove i criteri di funzionamento di una famiglia, non sempre necessariamente coincidenti con quelli del gruppo sociale di appartenenza, possono essere endogeni alla medesima, e perciò sottratti alla richiesta di valutazione esterna.
Anche nella crisi, i componenti della relazione potranno quindi individuare soluzioni attinenti al proprio vissuto e alle proprie specifiche esigenze mediante il ricorso alle insostituibili competenze di ognuno, recuperando potere sulla propria vita e sulle decisioni ad essa inerenti.
Ciò, mediante il ricorso alle esclusive risorse personali, reperite e rinnovate a mezzo della peculiare abilità di comunicazione di ciascuno o, in mancanza, qualora gli interessati ne rilevino la necessità, con il supporto di varie figure professionali, tra cui il consulente familiare.
Caratterizzante la figura del consulente familiare, quale operatore nella relazione d’aiuto, è l’idea di neutralità, esplicitata dalla Scuola Milanese di Terapia della Famiglia.
Si veda in proposito l’articolo “Ipotesi diagnostiche e relazione terapeutica: ricorsività e coerenza nel “Milan model”, nel n.5 della rivista Connessioni del 1999, dove si legge tra l’altro che l’operatore sistemico “sarà molto accorto nel non cadere in coalizioni con l’uno o con l’altro familiare poiché il suo vero interesse è quello di raccogliere informazioni e stimolare un confronto tra i familiari su di esse, piuttosto che formulare giudizi.”
Nessuna possibile, e tanto meno aprioristica, soluzione del conflitto familiare va quindi considerata come obiettivo da raggiungere per il consulente familiare sistemico, il quale si limiterà puramente e semplicemente a sollecitare tra gli utenti (se più d’uno) la ri-contrattazione di nuove regole di vita secondo criteri esclusivamente dagli stessi individuati, riconosciuti e condivisi – pur nella diversità e nel conflitto – piuttosto che a favorire nel singolo utente il recupero di un significato (il suo) alla propria esperienza di vita.
Compito del consulente, piuttosto che formulare giudizi o indicare percorsi, sarà dunque quello di accompagnare, attraverso la narrazione della propria storia di vita, a recuperare un senso alla propria condizione ( non risolvendola ma, semplicemente, legittimandola: “i problemi non si risolvono, ma si gestiscono”), o a ricollocarsi in una nuova situazione che dia ugualmente senso alla propria esistenza superando l’ansia che ogni cambiamento comporta.
E’ ciò che si riassume nella bellissima invocazione (a Dio, per il credente, o al proprio Spirito vitale, per il non credente) affinché tutti noi conquistiamo:
“la serenità di accettare le cose che non possiamo cambiare,
il coraggio di cambiare le cose che possiamo cambiare
la saggezza di distinguere le une dalle altre”