Una seconda, non meno rilevante, conseguenza della trasformazione verificatasi, è che la maggior indeterminatezza dei criteri di conformità all’ordinamento fa sì che non sia più possibile agli interessati, a prescindere dal contesto considerato e dalle specifiche relazioni in essere, e quindi da un’attenta analisi di ogni singola fattispecie operata dal giudice investito della decisione e dai suoi collaboratori, reclamare, con un elevato margine di probabilità sull’esito, la liceità o meno di comportamenti aprioristicamente considerati .
Valga per tutti il richiamo alla fedeltà coniugale che, pur permanendo tra i diritti – doveri che la legge impone ai coniugi ( perchè evidentemente ritenuta rispondente a una regola ancor oggi condivisa e quindi ritenuta dall’ordinamento meritevole di tutela), è stata definito dai non addetti ai lavori come “un obbligo a maglie larghe”, perchè dai connotati sempre meno inarcati. Mentre talora infatti può capitare di incorrere in sentenze che escludono, rispetto a un determinato contesto e alle dinamiche relazionali in essere ( ad esempio, un rapporto già altrimenti e per altre cause deteriorato), il carattere ingiurioso, e pertanto l’addebitabilità, del comportamento infedele, sia pur provatamente esternatosi in rapporti sessuali extra-coniugali e perciò denunciato e avvertito come tale dal partner ; altre volte è possibile trovarsi addebitato, secondo i nuovi contingenti criteri individuati dai giudici e dai loro collaboratori, un comportamento la cui portata ingiuriosa nei confronti del coniuge era stata del tutto sottovalutata dall’interessato, il quale potrà vedersi, suo malgrado, ritenuto responsabile del fallimento coniugale in maniera del tutto inconsapevole ( come nel caso della relazione platonica non esternatasi in intimità sessuali, e quindi ritenuta lecita dall’interessato, ma reputata talora addebitabile dal giudice per il particolare contesto in cui si è verificata: ad esempio, il comune luogo di lavoro dei coniugi con il conseguente discredito derivatone al partner incolpevole).
Si è a quello che si può definire un fenomeno di “umanizzazione” in atto nell’amministrazione della giustizia , per cui alle categorie astratte comportanti automatiche conseguenze a determinate premesse (per la moglie: infedele o disobbediente, quindi colpevole; per il marito: inadempiente ai propri doveri di capo famiglia, quindi colpevole) si è ora sostituita l’esigenza di considerare la portata e le conseguenze dei comportamenti individuali nella loro specificità e contingenza, per cui la valutazione degli stessi andrà operata dall’operatore giudiziario con riguardo ad ogni particolare caratteristica e sfumatura del caso, divenendone sempre meno prevedibile e scontato l’esito.
Fenomeno apprezzabile che consente di superare le troppo generiche astrazioni per lasciare più spazio all’unicità di ogni singola esistenza – e che si trova ben delineato da Adriana Cavarero, sia pur non in rapporto al mondo giuridico, nel suo”Io mi racconto, tu mi racconti”, edito nel 1998 da Mondadori – ma che comporta altresì un aumento del senso di disagio ed incertezza da parte dei protagonisti del conflitto familiare, allorchè questi operano la scelta di delegarne la decisione agli organi statuali a ciò preposti, e cioè alla magistratura e ai suoi collaboratori come sopra individuati. Disagio e incertezza aggravati dall’ulteriore circostanza di una più o meno profonda sfasatura sempre esistente tra realtà processuale (intesa come ciò di cui si riesce a fornire rappresentazione attraverso gli strumenti probatori a disposizione) percepita dal giudice e realtà sostanziale (intesa come insieme dei dati oggettivi e soggettivi di quella determinata fattispecie ) percepita dagli interessati, o meglio,da ognuno di essi.