Allorchè ho iniziato la mia attività professionale, tale struttura, da me sinteticamente illustrata, si stava lentamente scardinando mediante il progressivo riconoscimento delle molteplici e sempre più diversificate esigenze individuali che si andavano via via sostituendo all’univoca ragion di stato; ciò, tramite la previsione normativa della liceità di comportamenti maggiormente differenziati, non più necessariamente rispondenti ad astratte caratterizzazioni e a predefiniti e rigidi modelli. Non costituendo obiettivo del presente elaborato addentrarsi in argomenti eccessivamente tecnici, mi limito a richiamare, a titolo esemplificativo, la legge introduttiva del divorzio e la Riforma del diritto di famiglia del 1975 ( meglio conosciuta come “legge di parità”, in quanto sostituiva al criterio di autorità, fino ad allora fondante la famiglia, il consenso coniugale come linfa vitale della medesima), in virtù delle quali ciò che fino ad allora era considerato “deviante” rispetto al sistema e quindi proibito ( come il divorzio) ovvero censurato ( come ad esempio per la moglie sottrarsi all’indirizzo di vita familiare imposto dal marito o per la persona coniugata riconoscere il figlio frutto della relazione extra-matrimoniale) veniva considerato ora conforme alle nuove regole condivise e recepite dall’ordinamento come meritevoli di tutela giuridica.
Tale processo evolutivo, qui brevemente sintetizzato nelle sue linee essenziali, doveva produrre agli occhi dell’osservatore due fenomeni di grande rilievo.
In primo luogo, il venir meno della previsione legislativa di rigidi e univoci modelli di relazione doveva risolversi nel sottrarre ai giudici investiti del conflitto familiare la possibilità di operare una valutazione di conformità o meno ad essi dei comportamenti individuali, là dove il diritto, più che imporre o vietare, appare oggi indirizzato – in particolare in campo familiare – a promuovere persuasioni e consensi ( si veda in questo senso “Il diritto mite” di G.Zagrebelsky, Ed. Einaudi Contemporanea).
Il giudice infatti, non trovandosi più di fronte a una sola verità acquisita e proposta dall’ordinamento come apprezzabile, e quindi riconosciuta e tutelata, è tenuto ora a considerare la potenziale liceità di più possibili comportamenti individuali. Senonchè, nel conflitto tra i medesimi ( ad esempio: un marito e una moglie che non concordino sull’indirizzo di vita familiare o sull’educazione da impartire ai figli, o che si propongano entrambi come idonei affidatari della prole in caso di separazione o di divorzio; un figlio che intenda sottrarsi alle direttive dei genitori perché da lui non ritenute conformi alle proprie inclinazioni naturali ed aspirazioni che la nuova formulazione dell’articolo 147 del codice civile impone di tenere in considerazione), egli, anziché richiamarsi agli univoci modelli prima offerti dall’ordinamento, ora si trova di fronte alla necessità di reperire nuovi criteri rispondenti a principi condivisi, facendo ricorso a diverse competenze e professionalità che gli consentano di individuarli con il concorso di discipline meta-giuridiche.
Il che viene a confermare la mai superata immagine dello Jemolo che rappresentava “la famiglia come un’isola che il mare del diritto può soltanto lambire”.
Ciò spiega il sempre maggiore risalto che stanno acquisendo nel processo della famiglia le figure dei consulenti tecnici quali organi ausiliari del giudice, cui ora nuove proposte di legge prevedono di affiancare la figura di un mediatore familiare cui il giudice stesso possa sollecitare le parti a rivolgersi per la riappropriazione delle dinamiche di gestione del conflitto.